Come è stata trovata Pithecusa
di Giorgio
Buchner
...
Qualche cosa ho trovato “scrìtto nei libri”,
ma assai poco, invero. Anzitutto una frase di Amedeo Maiuri che
nel 1930, in un articolo dal titolo "Aspetti e problemi dell'archeologia campana"
(Historia 1930, p. 54), scrisse "del
tutto ignota è l'isola d'Ischia", e una
annotazione di Tito Livio (VIII, 22, 5?6), secondo la quale i coloni
greci venuti da Calcide e da Eretria nell'isola di Eubea, prima di
fondare Cuma sulla costa del continente, si sarebbeto stabiliti nell'Isola
d'Ischia fondandovi una città dal nome Pithecusa.
Strabone, il geografo greco contemporaneo di Livio, scrive che gli
abitanti di Pithecusa nell'isola
omonima vissero inizialmente in prosperità (V, 247
C), ma parlando di Cuma (V, 243 C) afferma invece che questa sarebbe
stata la più antica colonia greca d'Italia e di Sicilia, come
si trova spesso ripetuto nei testi scolastici e divulgativi. Livio
"che non erra" (Dante, Inferno, XXVIII, 12) si
sarebbe dunque sbagliato? Quando raccolsi, da studente liceale, in
un quaderno tutti i passi degli scrittori greci e latini che parlano
dell'isola d'Ischia, non potevo ancora immaginare che avrei speso
tanti anni della mia vita, per provare che il giudizio di Dante sullo
storico romano, anche in questo caso, coglie nel vero.
Sebbene fosse esatto quanto scrisse Maiuri, vale a dire che Ischia
era allora del tutto sconosciuta dal punto di vista archeologico,
è da dire però che esisteva tuttavia qualche indicazione
che mi è stata di grandissimo aiuto per ritrovare Pithecusa e
il suo cimitero di Lacco. È stato, infatti, merito del medico
e sacerdote Francesco De Siano di Lacco (1740?1813), aver osservato
per primo che sul promontorio di Monte di Vico si trova grande quantità
di rottami di tegole e di vasi antichi, mentre nell'adiacente Valle
di S. Montano i contadini scoprono talvolta delle tombe pagane. In
un raro libretto dal titolo Brevi e succinte notizie di storia
naturale e ciuile dell'Isola d'Ischia del Dottor Fisico Don Francesco
De Siano, per servire di guida, e comodo ai viaggiatori, ed a quei,
che debbono fare uso delle acque, e fumarole di detta isola,
iniziato a stampare a Napoli nel 1798 ma uscito, a causa della rivoluzione
napoletana del 1799, soltanto nel 1801, Don Francesco riferisce queste
notizie e ne deduce "che la sede principale delle colonie greche
(di Pithecusa) sia stato il Lacco, come situato nel mezzo dell'isola,
con una ben larga e spaziosa marina più atta per il commercio
e la più sicura di tutte le altre per l'ormeggio e ricovero
de' bastimenti".
A leggere attentamente le sue parole appare però che egli ha
osservato soltanto tombe di età ellenistica, cioè del
III?Il sec. a. C., in casse di tufo; e tombe a tegole di età
romana. Un altro medico termale ischitano, Jacques Etienne Chevalley
de Rivaz, di origine svizzera, autore di una Descrizione delle
acque termominerali dell'isola che tra il 1831 e il 1859 ebbe
non meno di 6 edizioni, descrive nel suo libro alcune tombe che egli
ha visto scavare nella Valle di S. Montano, e tra queste ve n'è
qualcuna con "vasi etruschi", come si chiamavano allora
i vasi attici a figure nere e rosse del VI e V sec. a. C.
Queste
notizie erano state già accuratamente raccolte dallo storico
tedesco Julius Beloch che nel suo libro Campanien - Storia e topografia
antica di Napoli e dintorni, I ed. 1879, Il ed. 1890 - ha dedicato
un capitolo a Pithecusa.
Egli ne trae la conclusione che la città dev'essere stata situata
sul Monte di Vico, e la necropoli nella Valle di S. Montano, almeno
dal V sec. a. C. in poi, ma soggiunge che è impossibile sapere
se già il primo stanziamento dei Greci venuti dall'Eubea fosse
stato nello stesso sito. E il ben noto storico italiano Ettore Pais,
in un articolo apparso per la prima volta nell'anno 1900 e più
volte ancora ristampato, è dell'opinione che la colonia greca
più antica si debba cercare piuttosto sulle colline che si
estendono tra Porto d'Ischia e Casamicciola.
A questo
punto erano rimaste le conoscenze di Pithecusa fino
agli inizi degli anni'30. Il primo impulso ad interessarmi dell'archeologia
di Ischia mi venne proprio dal libro testé ricordato del Beloch.
Mio padre, che insegnava allora Zoologia e Anatomia comparata all'Università
di Breslavia e soltanto da qualche anno aveva incominciato a costruirsi
una casa sulla collina di S. Alessandro sopra il Porto d'Ischia, fin
d'allora aveva anche incominciato a raccogliere libri che trattano
della nostra isola. Fortunatamente, nel deposito dell'editore presso
il quale, proprio a Breslavia, era uscita la seconda edizione del libro Campanien del
Beloch nel 1890, era rimasta ancora un'ultima copia invenduta che mio
padre acquistò. Da tedesco coscienzioso
e pignolo il Beloch ha voluto controllare di persona quanto aveva
affermato Don Francesco De Siano. "Infatti, - egli scrive - tutta
la superficie di Monte di Vico è realmente cosparsa di frammenti
di tegole e di vasi antichi e dove si raschia il terreno con la punta
del bastone da passeggio vengono alla luce interi strati di cocci".
Questa
frase eccitò vivamente la mia fantasia di studente di ginnasio
e non vedevo l'ora della nostra prossima partenza per le vacanze estive
ad Ischia. Finalmente il giorno venne che andai per la prima volta
a cocci sul Monte di Vico. E ne raccolsi di tante specie diverse,
neri e dipinti a righe rosse e brune, e altri grezzi che però
avevano la superficie ben levigata e lucida. Ma i cocci restavano
ancora muti per me che non sapevo nulla della ceramica antica. Finché
non venne a farci visita un estroso barone siciliano, Otto de Fiore,
ricercatore dalle attività multiformi che si occupava ugualmente
di zoologia, come di geologia e di archeologia.
Così appresi che avevo trovato cocci greci di stile geometrico
dell’VIII secolo a. C. e anche preistorici dell'età del
bronzo, attici a vernice nera lucidissima del V s., campani a vernice
nera più scadente del 111 s. e imparai dal vivo le prime nozioni
sulla ceramica antica.
Avevo trovato dunque le testimonianze che la città greca di Pithecusa fin
dall’VIII
sec. era situata sul Monte di Vico, cosa che già il Beloch
avrebbe potuto accertare 50 anni prima, se avesse avuto un minimo
di conoscenza di ceramica greca. Nacque così ad Ischia la mia
passione per l'archeologia e, quando venne il momento di iscrivermi
all'Università, avevo ormai deciso di abbandonare le orme paterne
e di non studiare più biologia, come prima avevo pensato.
Naturalmente desideravo soprattutto di poter scavare la necropoli
nella Valle di San Montano, dove c'era la speranza di poter trovare
testimonianze assai più complete e consistenti dell'antica Pithecusa che
non sul Monte di Vico, dove gli strati più antichi non soltanto dovevano
essere stati già disturbati dalla vita della città nei
secoli posteriori, ma tutti i livelli archeologici si presentavano
rimaneggiati e compromessi dalle opere di terrazzamento per l'impianto
di vigneti. Dovevano passare ancora anni finché potei iniziare
finalmente i primi saggi a San Montano nella primavera del 1952 che
portarono subito alla scoperta di tombe del VII e poi dell’VIII
sec. a. C.
Da allora le ricerche a San Montano sono continuate, anche se con
diverse interruzioni di vari anni in cui non si è scavato.
Più recentemente, all'esplorazione delle tombe si è
aggiunta anche la scoperta di livelli di abitazione dell`VIII e VII
sec. che ha notevolmente completato e approfondito quell'immagine di Pithecusa che
prima era fondata soltanto sui corredi deposti nelle tombe e sulle
usanze funerarie. Sul fianco occidentale di Monte di Vico, durante
la costruzione della Villa Gosetti, apparve uno scarico antico ? con
linguaggio attuale si direbbe una discarica di rifiuti urbani solidi
?, con il quale era stato riempito un profondo burrone eroso dalle
acque piovane, pieno di frammenti di ceramica che vanno dall'età del bronzo
fino al II sec. a. C. Ma più importante ancora era la scoperta
di un insediamento suburbano in località Mazzola, dall'altro
lato della nuova strada di circumvallazione, coi resti ancora relativamente
ben conservati, oltre che di strutture abitative, soprattutto di
officine per la lavorazione dei metalli, ferro, bronzo e probabilmente
anche di metalli preziosi.
Lo scavo della necropoli di
San Montano
Detto
scavo per due circostanze singolari presenta complicanze e difficoltà
inconsuete. La prima circostanza insolita è il fatto che la
stessa area è stata usata continuatamente per un millennio
come luogo di sepoltura, precisamente dalla metà dell`VIII
sec. a. C. alla seconda metà del II sec. d. C. Ciò era
possibile grazie al continuo apporto di terreno alluvionale dilavato
dalle colline circostanti che ha rialzato mano mano il piano di campagna.
Troviamo perciò le tombe delle diverse epoche successive sovrapposte
una all'altra, il che comporta che della stessa area scavata dobbiamo
rilevare tre e talvolta quattro piante.
Dall'alto in basso si incontrano prima le tombe di età romana,
per lo più con copertura di tegole a doppio spiovente, poi
quelle di età ellenistica che possono essere ugualmente con
copertura di tegole a spioventi o costruite con grandi lastroni di
tufo, che spesso sono state vere e proprie tombe di famiglia usate
per molte deposizioni successive. Troviamo poi le tombe del V e VI
sec. a. C. in casse ricavate da un sol pezzo di tufo o anche in casse
formate da tegole con copertura in piano. Appena al di sotto di queste
si trovano poi le tombe che maggiormente ci interessano, quelle del
VII e VIII sec. E qui troviamo un'altra complicazione: mentre le tombe
dei periodi più recenti sono nella grande maggioranza ad inumazione,
in quello più antico si praticava contemporaneamente tanto
il rito della cremazione, riservato prevalen~temente agli adulti,
quanto quello della inumazione, usato prevalentemente per i bambini.
Le tombe a cremazione si presentano come piccoli tumuli formati da
pietre che coprivano gli avanzi del rogo ed erano originariamente
visibili sulla superficie del terreno, mentre le tombe ad inumazione
erano a fossa più o meno profondamente scavata nella terra.
Mano mano che aumentavano le tombe a cremazione degli adulti, i tumuli
di queste si estendevano al disopra delle tombe dei bambini precedentemente
deposti nelle fosse. Tombe a cremazione a tumulo di questo tipo si
sono trovate finora soltanto ad Ischia, mentre erano certamente più
largamente diffuse, ma soltanto qui questi tumuli facilmente degradabili
hanno potuto conservarsi per il forte apporto di terreno alluvionale
che già nel volgere di qualche secolo li ricopriva sottraendoli
alla distruzione.
Un'altra circostanza, del tutto singolare, è dovuta alla natura
vulcanica dell'Isola d'Ischia. Tutta la Valle di S. Montano è
infatti una zona termale: più si scava in profondità
e più il terreno è riscaldato da fumarole vulcaniche,
tanto che in alcune tombe, al momento dell'apertura, abbiamo misurato
fino a 63 gradi C. Questo calore umido produce effetti spesso disastrosi,
specie sulla ceramica, ma anche sui metalli. Il consolidamento e restauro
del materiale pone perciò problemi tutto particolari e spesso
richiede un lungo e paziente lavoro. I reperti si presentano di conseguenza
con un aspetto più o meno fortemente alterato, i colori originari
dei vasi dipinti sono offuscati, gli oggetti di metallo ridotti allo
stato di ossido. Questo fatto, che a prima vista può sembrare
un grosso guaio, è stato invece una grande fortuna! Soltanto
alla circostanza che i reperti per il loro cattivo stato di conservazione
erano poco appetibili e non commerciabili è dovuto ? il caso
è più unico che raro ? che la necropoli di Pithecusa,
pur essendo stata individuata già alla fine del 1700, ad eccezione
delle poche tombe di età piuttosto recente scavate nel secolo
scorso, è rimasta praticamente inviolata finché vi iniziai
le ricerche sistematiche nel 1952, mentre, per esempio, la necropoli
di Cuma è stata ampiamente frugata senza alcun metodo scientifico
durante tutto il secolo scorso, tanto che oggi non possediamo che
tristi resti smembrati e incompleti dei corredi tombali cumani.
Poco ci importa che i reperti della necropoli di San Montano praticamente
abbiano perduto ogni valore commerciale, dal momento che il loro
incommensurabile valore scientifico, che illumina di luce, fino a
pochi decenni fa insperabile, uno dei più importanti periodi della nostra storia,
non è stato per nulla compromesso dai vapori delle fumarole
vulcaniche. Scopo dello scavo archeologico scientifico oggi, infatti,
non è più quello di ricuperare singoli oggetti di bell'aspetto
estetico e di curiosità antiquaria, ma quello di conoscere
attraverso il materiale e le altre informazioni, raccolti nello scavo,
la storia delle popolazioni del passato, intesa non tanto come storia
politica di regnanti e di guerre, ma come conoscenza dei modi di vita,
della struttura sociale degli agglomerati umani, degli scambi commerciali
indicati dagli oggetti, importati da altre regioni o esportati, dei
vicendevoli influssi intercorsi tra le diverse civiltà.
C'è da dire ancora che ? sebbene gli scavi finora eseguiti
abbiano già portato alla luce una messe imponente di materiale
? il sito di Pithecusa è ben lungi dall'essere esaurito e molte
e importanti altre scoperte si possono aspettare ancora con sicurezza
nel proseguimento delle ricerche. Le aree scavate a San Montano, con
circa 1300 tombe esplorate fin oggi, rappresentano soltanto una minima
parte della necropoli; lo stesso vale per il quartiere metallurgico
di Mazzola soltano in piccola parte scavato, e altre zone già
identificate aspettano ancora di essere esplorate.
(Testo di una Comunicazione di Giorgio
Buchner del 19 settembre 1980
al Centro Studi su l’isola d’Ischia)
Gli scavi archeologici condotti dal prof. Giorgio Buchner hanno avuto il loro inizio nel 1952 ed hanno interessato progressivamente le seguenti zone: la necropoli di San Montano; lo Scarico dell'acropoli, sul fianco orientale di Monte Vico; il quartiere metallurgico di Mazzola sul colle di Mezzavia, sul versante opposto della valle di San Montano rispetto all'acropoli.
«La necropoli si estende per almeno 500 metri in lunghezza, mentre la larghezza è di circa 150 metri all'estremità verso mare, e si riduce via via all'interno fino a meno di 75 metri; l'area interessata, di forma approssimativamente triangolare, misura pertanto più di 50.000 mq, e sappiamo che almeno in parte restò in uso ininterrotto per mille anni, tra l'VIII secolo a. C. e il III d. C. Gli scavi si sono svolti in due serie, la prima dal 1952 al 1961, la seconda dal 1965 in avanti» (David Ridgway, L'alba della Magna Grecia).
«Il primo scavo a Monte di Vico fu condotto nel 1965 allo scopo di esplorare ciò che era venuto alla luce in occasione della costruzione di una vasta villa privata sul fianco orientale del colle, che domina il moderno lungomare di Lacco Ameno. Qui si trova un burrone scavato dall'acqua piovana nei tufi incoerenti, che nella sezione al di sotto della progettata villa conteneva una quantità enorme di ceramiche e altri materiali, scaricati ? da mano umana o da agenti naturali ? senza ombra di ordine stratigrafico. La quantità stessa dei materiali recuperati da questo scarico dell'acropoli (scarico Gosetti) è di per sé impressionante» (D. Ridgway, op. cit.).
«L'insediamento di Pithecusa non era limitato al promontorio di Monte di Vico, ma si estendeva anche sul versante nordest della collina di Mezzavia (sopra l'attuale strada di circumvallazione), di faccia al fianco orientale dell'acropoli al di là di una zona bassa e pianeggiante che si prolunga verso nordovest nella valle di San Montano. Dalla raccolta sistematica di cocci in superficie risulta che il complesso suburbano di Mezzavia si estendeva per una lunghezza di almeno 500 metri in una serie di nuclei distinti, tre dei quali sono stati accertati, fondati tutti nella fase LG I. Di questi, uno solo è stato meglio definito e parzialmente scavato dal 1969 al 1971 nella località detta Mazzola in un'area a emiciclo chiusa su entrambi i lati da più alti livelli di terreno» (D. Ridgway, op. cit.).