La Tonnara di Lacco Ameno

Giuseppe Silvestri

Della tonnara di Lacco Ameno si trova cenno in testi ed articoli pubblicati sull'isola d'Ischia nel succedersi del tempo e in particolare nella Storia dell'Isola d'Ischia di Giuseppe d'Ascia.
Ritengo, comunque, poiché da ragazzo ne ho avuto una conoscenza diretta, di cimentarmi in una descrizione e ricostruzione storica, delle quali non ho la presunzione della perfezione, ma la convinzione di una buona corrispondenza alla realtà.
Ciò è dato sia da ricordi precisi, nitidi che ancora registro nella mia memoria, sia da riscontri che ho potuto verificare con persone, oggi vicino agli 80 anni o anche di più, le quali più a lungo e qualcuna anche direttamente, hanno avuto l'esperienza di quel fenomeno che fu la tonnara di Lacco Ameno.
Sull'onda dei ricordi e della curiosità mi sono portato a consultare l'archivio comunale o con più precisione i registri della Giunta e del Consiglio. Questa ricerca mi ha consentito di ricostruire gli aspetti essenziali della storia della tonnara nella sua evoluzione a partire dal 1869, riservandomi in un successivo lavoro di andare ancora più indietro nel tempo e possibilmente alle origini che sono anteriori al 1750.

L'argomento non può prescindere da riferimenti ai Privilegi Aragonesi che costituirono l'occasione fondamentale che portò agli impianti delle tonnaie, né dalle indicazioni che si ritrovano nel testo già citato di Giuseppe d'Ascia.
È opportuno ricordare che, a monte dei Privilegi Aragonesi, in particolare degli ultimi, c'è un contesto storico politico che vede protagonisti il re di Spagna, Ferdinando il Cattolico, il re di Francia, Luigi XII, e lo stesso Federico III d'Aragona, re di Napoli, che viene sacrificato agli interessi delle due grandi potenze europee.
Com'è infatti noto, il successore di Carlo VIII, Luigi XII (1498-1514) re di Francia riprese la politica espansionistica nella penisola italiana e, dopo aver sconfitto Lodovico il Moro, conquistato il ducato di Milano, progettò la conquista di Napoli.
Per questo agì in accordo con il re di Spagna Ferdinando il Cattolico, stipulando in segreto il trattato di Granada nel 1500, in base al quale si definiva la spartizione del regno di Napoli fra le due potenze: la Campania e l'Abruzzo alla Francia; la Calabria e la Puglia alla Spagna.
Probabilmente a spingere Ferdinando ad un passo così drastico contro Federico III d'Aragona fu la convinzione che gli Aragonesi di Napoli non erano in grado di opporsi alla potenza francese.
Per Federico la decisione del re Ferdinando fu un vero tradimento, a cui rispose abdicando a favore del re di Francia, ottenendo il ducato d'Angiò.
A questo punto Federico III trascorse gli ultimi giorni di regno sul Castello d'Ischia e lì confermò e ampliò i cosiddetti Privilegi Aragonesi.
Nella Storia dell'isola d'Ischia di Giuseppe d'Ascia vengono descritti gli ultimi giorni di regno di Federico III: "Federico d'Aragona, grato alla fedeltà degli Ischitani e al coraggio spiegato in tanti incontri per la dinastia Aragonese, e affezionato oltremodo verso il governatore Inaco d'Avalos e l'intera famiglia del Vasto, che sulla cittadella erasi con tutti gli altri suoi fidi ritirata, volle di tale gratitudine ed affetto lasciare un attestato imperituro, insignendo quest'isola di altri privilegi, ed il governatore di più largo dominio.
Primo tratto di sua magnanimità mostrollo nel dì 15 agosto del 1501, giorno sacro all'Assunzione di Maria, che oltremodo solennizzavasi dagli abitanti della città dell'Isola d'Ischia.
Federico volle concorrere alla comune pompa religiosa e a lettere d'oro fè iscrivere sulla porta del tempio dedicato alla nostra Signora Assunta, là fra le mura del Castello queste parole: "Quorum eximia servitia in omni nostra fortuna elucescunt". Volle quindi, prima di partire per la terra del volontario esilio, pria di deporre sui massi di questa rocca gli ultimi avanzi di quella slegata corona, lasciare impresso sullo scoglio ospitale un ricordo di sua infelice virtù.

I principali privilegi concessi furono


- Che niun forestiere, di qualunque nazione che fosse, potesse goder beneficio che fusse istituito o vacante nella diocesi d'Ischia e precisamente nella regia cappella: tanto istituito sub patronato, quanto cum cura o sine cura, salvo ai filiani nati nella detta città d'Ischia ai quali fosse stato canonicamente concesso dal Vescovo dell'Isola, onde i proventi qui rimanessero e non menomasse il culto divino.

2. La concessione agli Ischitani di quattro impieghi annuali nei bassi uffizi del regno, fra le capitanie e castellanie e ciò per il sostentamento dei detti cittadini.

3. Che chiunque avesse portato grasso nell'Isola d'Ischia, fosse andato esente dal pagamento di qualunque dazio o gabella gravitante sul genere, dovendolo però vendere per quattro giorni, di prima mano, alla popolazione, e dopo i negozianti potevano comprarsi la merce dagli immittenti per venderla in seconda mano o consegnarlo ai rigattieri.

4. La cessione alla città e alle terre dell'isola di tutte le marine, i lidi, le spiagge, le peschiere ed i promontori dell'isola, nonché lo spazio di due (altre fonti riportano mezzo miglio) miglia di mare intorno ad essa: potendone disporre le Università come cosa propria.
I pescatori che in tal perimetro di mare concesso avessero esercitato il loro mestiere sarebbero obbligati di portare la terza parte della pesca fatta a vendere nella detta città ed isola, al prezzo di quell'assisa che verrebbe impartita dal Catapane del luogo: essendo i pescivendoli tenuti a sottoporsi ancora alle assise, dovendo vendere il pesce nei Casali e nei luoghi più prossimi al punto ove fusse stato pescato, nonostante che la Città ed Isola non fosse stata in possesso di quel punto di mare.

5. Che il Mastrodatti di detta città dovesse in perpetuo uscire da questa: i letterati della medesima si avessero potuto esercitare in detto uffizio, dovendo la loro Università avere il diritto di disporre della surriferita carica.

6. Che a niuno si potesse concedere la custodia delle prigioni di detta città, quante volte non fusse ischitano.

7. La confirma di tutti i capitoli, privilegi, consuetudini scritte e grazie concesse alla fedelissima città ed Isola d'Ischia dagli altri suoi antecessori, cioè Alfonso I nel 1431 e 1433, da Ferdinando I nel 1458, da Alfonso II nel 1495 e quelli stessi ampliò ed accrebbe.
L'esistenza delle tonnare nel mare di Ischia è stata dunque strettamente legata ai Privilegi Aragonesi; infatti la possibilità, o meglio il diritto che prima le Università e poi i Comuni ebbero di gestire, tra l'altro, lo spazio di mezzo miglio di mare intorno all'isola (questo privilegio fu concesso proprio da Federico III), potendone disporre come cosa propria, dovette sollecitare gli amministratori del tempo a sostenere l'impianto delle tonnare, perché da esse ottenevano proventi interessanti per i loro bilanci e costituivano un'attività su cui molte famiglie si sostenevano.
L'esistenza delle tonnare nel mare di Ischia è anteriore al 1750, come già detto, e le più importanti furono la Tonnara di San Pietro a Ischia e quella di Lacco Ameno che ha avuto una sua lunga e particolare storia durante la sua attività fino agli inizi degli anni 1960. La Tonnaia di San Pietro in Ischia non fu più impiantata in seguito alla realizzazione del porto, perché ostacolava il passaggio delle navi e delle barche.

La Tonnara di Lacco Ameno
L'appalto della tonnara di Lacco era regolato da una particolare procedura che si concretizzava nel cosiddetto regolamento d'onere, definito dalla Giunta Comunale con le facoltà conferitele dal Consiglio, come si evince da una delibera stessa del 1869. Questo regolamento d'onere del 1869 costituirà il documento base dei successivi appalti della Tonnara fino all'ultimo relativo agli anni 1953-1961.
Le variazioni che si possono notare rientrano nella stessa evoluzione dei tempi: esse riguardano l'importo dell'estaglio, la base d'asta, la prestazione della quantità e qualità del pesce che l'appaltatore doveva fornire su ordinanza del Sindaco, perché fosse venduto alla popolazione a prezzo conveniente, la durata del contratto che varia da sei a nove anni, le limitazioni imposte dall'appaltatore agli altri pescatori. In tutti i Capitolati viene fatto salvo il cosiddetto "Volo della Pietra Grossa" che i pescatori lacchesi potevano praticare liberamente. Nell'ultimo Capitolato del 1953 i pescatori di Lacco ottengono di poter pescare con le reti comunemente dette "tonnarelle" nello spazio antistante il Fungo, come puntualmente precisato nell'art. 9.
Altra novità rispetto al passato è rappresentata dalla delibera del 13 settembre 1848 in cui si consente la pesca con lenza o canna fuori della "leva" della tonnara e sempre che tale pesca non arrechi "pregiudizio" all'attività della tonnara.
Queste ultime concessioni stanno certamente a significare come la categoria dei pescatori aveva acquisito una certa importanza.

Durante i mesi invernali, dalla fine di novembre a marzo, i barconi erano tenuti in secco sulla spiaggia antistante l'edificio scolastico di Lacco Ameno.
I tre grossi barconi, denominati Caparaise, Scieve, U semafere (detto anche Abbazia) erano allineati l'uno accanto all'altro e poi sempre nella stessa zona erano disposti i gozzi che servivano per i collegamenti e per tutte le operazioni di impianto della imponente struttura di cavi e reti della tonnara.
A ridosso della strada che porta a Piazza S. Restituta, sulla spiaggia, dall'angolo della piccola, antica banchina, venivano collocate, intrecciate in lunga fila, le grandi àncore. Tutto il restante materiale: cavi, reti, galleggianti di sughero, di vetro, i cosiddetti stramazzuoli (corde sottili per armare le reti), remi, etc. veniva custodito parte nei magazzini a pianterreno del palazzo Calise Piro, e parte in una lunga grotta sotto Monte Vico, che tuttora esistente fa parte del complesso Regina Isabella-Sporting, ed è precisamente alle spalle del famoso Ninfeo.
A febbraio iniziavano sulla spiaggia i lavori di manutenzione delle barche, che consistevano soprattutto in calafatura con pece.
Venivano poi sistemate le reti, i cavi, i galleggianti e finalmente iniziava il lavoro di impianto a mare che durava alcune settimane. Tutto si svolgeva sotto la guida dell'  arraise (rais lo chiamano nelle tonnare siciliane).
Il capo era colui che conosceva alla perfezione il tratto di mare interessato all'impianto della tonnara, la sua profondità, il tipo di fondale ed in particolare il movimento delle correnti marine. Al Capo era attribuita tutta la responsabilità dell'operazione di impianto e delle successive attività.
I marinai sistemavano sui gozzi le àncore, i cavi, applicavano i galleggianti di sughero e di vetro e, seguendo ormai quello che era un rituale antico, procedevano nelle complesse operazioni.
Un cavo lungo circa un miglio e mezzo partiva dalla scogliera di sotto il porto, adagiato sul fondo per un tratto e poi tirato su in superficie da gavitelli di ferro posti a distanza di una decina di metri l'uno dall'altro.
Il cavo aveva una direzione Sud-Nord, perpendicolare alla costa della marina, e si portava fino al punto di incrocio con la cosiddetta gabbia o camera della morte.
A questo cavo (negli ultimi anni di acciaio) era legata, fino a toccare il fondo, una rete a maglie molto larghe, la quale aveva il compito di "fare ombra", cioè doveva indurre i pesci provenienti da Est o da Ovest a seguirla, costeggiarla per poi condurli alla gabbia.

Anticamente la rete era sostenuta dalle cosiddette mazzare di cui si parla nei deliberati dei Consigli comunali, successivamente, probabilmente nel 1900, le mazzare furono sostituite da grosse àncore di ferro che, legate a robusti cavi detti resti, erano poste in modo lineare ad Est e Ovest, per tenere fissa la rete ombra, dalla spinta della corrente che in genere durante il corso della giornata cambiava direzione: al mattino spingeva da levante, di pomeriggio da ponente. Si verificava così un perfetto equilibrio di cui erano protagonisti la natura e l'abilità e tecnica dell'uomo. A seconda della intensità della corrente i cavi subivano la trazione ed i galleggianti di sughero e di vetro scendevano ad alcuni metri di profondità per poi risalire in superficie nel periodo in cui la corrente cambiava direzione o spingeva con minore intensità.
È ancora oggi possibile vedere all'altezza di tre o quattro metri sull'estremità della Punta di Monte Vico una roccia ad arte scalpellata (a forma di bitta) da cui partiva un cavo che contribuiva alla tenuta dell'impianto.
Dall'altezza della punta di Monte Vico ad un centinaio di metri ad Est iniziavano gli incroci della rete ombra con le funi di canapa che reggevano le àncore ad Est e ad Ovest delle stesse, come già detto sopra, se ne susseguivano una decina fino ad arrivare all'incontro con la rete principale.
Questa era una rete a maglie strette, di corda resistente a forti pressioni, che formava una gabbia rettangolare, i cui lati in superficie erano di oltre cento metri di lunghezza per una cinquantina di larghezza.
Prima della porta che conduceva alla gabbia o camera della morte c'era uno spazio, camera ranna, dove confluivano i pesci che avevano seguito le reti ombre, che si estendevano anche in direzione Est-Ovest.

La funzione delle barche

Il barcone detto caparaise era tenuto da grossi cavi (che partivano dalle sue estremità, prua e poppa erano identiche, a punta) che si perdevano, legati a grandi àncore nella profondità (una ottantina di metri), verso ponente. Dalla murata di levante partiva la rete principale, che si distendeva fino all'altro barcone detto scieve su cui erano in attesa i marinai.
Una trentina di pescatori, capi di famiglia, soprattutto dei rioni Ortola e Mezzavia, stavano su quella barca dal mattino presto fino alle cinque del pomeriggio. Una decina d'ore a cullare sul mare i loro pensieri e le loro speranze, che forse erano riposte tutte nei figli che potevano immaginare a scuola o a giocare, o qualcuno già intento al lavoro
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